Blue Jasmine: il dolore del non-essere

Woody Allen è uno di quegli autori che dividono il pubblico: c’è chi non ne ha mai apprezzato stile, tematiche e linguaggi e chi lo ama, quasi incondizionatamente.  Difficile è porsi nel mezzo. Difficile soprattutto quando uno dei suoi film, Blue Jasmine appunto, presenta aspetti di incredibile finezza psicologica ma, al contempo, mostra i suoi limiti e qualcosa non funziona.

Sebbene la narrazione, alcuni dialoghi e i personaggi sullo sfondo non siano all’altezza e sappiano di già visto, la protagonista, Jasmine, tratteggiata con sapiente consapevolezza delle vie che il dolore mentale può intraprendere, vale la visione del film.

Ed è necessaria tutta la profondità dell’autore per raccontare una donna che ha sempre vissuto sulla superficie del suo Io, fino all’estremo di non averne più uno. Così quando la vita di apparenza e lusso crolla, non c’è nulla che rimane.  Il vuoto. Vuoto come lo sguardo glacialmente assente di una straordinaria Cate Blanchett, a tratti talmente fragile e smarrita da suscitare un senso di dolorosa tenerezza, nonostante la totale assenza in lei di un qualche moto edificante. E’ opportunista verso una sorella adottiva, tenuta lontana perché di umili origini e poi ricercata quale unico possibile rifugio ma, sempre e comunque, disprezzata e ridotta a mero strumento dalla protagonista. Non c’è autocritica in Jasmine, solo smania di tornare a quella apparenza che è la sola identità che conosce. Ma non ha scelta. Non c’è nulla di più autentico da cui possa ricominciare. L’alternativa è la follia dei deliri in solitudine,  nel ricordo di un passato che non è più recuperabile, ma che si sovrappone, nella sua mente, alla realtà presente. Jasmine ci ricorda il pericolo di essere solo sagome bidimensionali, tenute in piedi da supporti (ruoli sociali, relazioni superficiali, beni materiali), che, una volta crollati, mostrano l’inesorabile nulla che goffamente nascondevano.

E’ un film da vedere, come un viaggio nella fragilità psicologica di una donna che ha perso i feticci che ne costituivano l’identità e che nella negazione trova una precaria e impietosa via di sopravvivenza.